La disputa iconoclasta

 

Il cammino dell’iconografia, da quando si è sviluppato, non è stato sempre liscio e lineare; questa disciplina si è dovuta scontrare con dei nemici molto forti, ha dovuto superare delle dispute teologiche dalle quali però è uscita rafforzata.

Per oltre 100 anni, dal 726 all’843 d.C. la dura lotta iconoclasta vide scontrarsi da una parte i difensori delle immagini sacre, gli “iconoduli”, e dall’altra coloro che le osteggiavano, gli “iconoclasti”.

Iconoclasmo viene dal greco, “clao” = spezzo e “eikon”= icona, e infatti gli iconoclasti erano coloro che distruggevano le icone.

Questa disputa, questa controversia teologica fra iconoduli e iconoclasti, che si protrae per più di un secolo, riguarda principalmente l’icona di Cristo; la fede nella divinità di Cristo porta ad una presa di posizione in merito ad un aspetto fondamentale: l’indescrivibilità di Dio e la realtà dell’incarnazione che lo aveva reso visibile.

La realtà concreta e storica dell’incarnazione è l’autentico fondamento dell’arte delle immagini, perciò l’icona di Cristo è l’icona per eccellenza e la sua venerazione implica una professione di fede nell’incarnazione.

Clasm_Chludov

Raffigurazioni di Gesù distrutte dagli iconoclasti, miniatura del Salterio Chludov, IX secolo

La questione, che a noi oggi sembrerebbe di natura puramente religiosa, in quel preciso momento storico sconvolse tutta la società bizantina, perché in essa l’ambito religioso non era scisso da quello politico.

L’iconoclasmo ha una sua motivazione che si basa sul divieto veterotestamentario della raffigurazione e sull’usanza del culto degli idoli.

Nel decalogo dell’Esodo Dio dice: “Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra.” (Es. 20:4).

Ma Cristo sigilla una nuova alleanza e con la sua venuta il divieto dell’Antico Testamento non ha più ragione di essere.

La natività del Cristo segna la nascita dell’icona: il Verbo si è fatto carne, Dio si è fatto uomo, Parola ed Immagine consustanziale del Padre: Lui stesso ha detto: “Chi vede me vede il Padre mio che è nei Cieli”e come scrive Paul Evdokimov “il visibile viene affermato nella sua funzione iconografica di visione dell’invisibile”.

L’onore tributato all’immagine passa al Modello, come affermato dal Concilio Niceno II nel 787; chi dunque venera le icone venera in esse la persona (Hypostasis) di colui che è raffigurato, quindi l’icona è un mezzo e non un fine, oggetto di venerazione o di onore, ma non di adorazione; l’adorazione è solo per Dio.

Molte immagini furono distrutte in questo periodo e molti monaci iconografi furono perseguitati, torturati ed anche uccisi; costoro però non difendevano soltanto una tavola di legno, ma difendevano un’idea, una dottrina teologica, il fondamento stesso del cristianesimo e della sua dottrina di salvezza.

San Giovanni Damasceno e San Teodoro Studita, ardenti difensori delle immagini durante il periodo iconoclasta, elaborarono le concezioni teologiche dell’immagine.

Per il Damasceno l’incarnazione segna la salvezza della materia, se il corpo è il “tempio dello spirito”, l’icona con il suo legno e i suoi colori è “pneumatofora”, portatrice dello Spirito.

L’icona è, come lo sono i Vangeli scritti, espressione del messaggio di Salvezza “la lettera è un’icona della parola” sottolinea il Damasceno.

Le molle che fecero scattare la sanguinosa persecuzione durata più di 100 anni, furono molteplici e lasciano spazio a diverse supposizioni, essendo andate perduti gran parte dei documenti dell’epoca.

Il primo movente fu l’ostacolo che il culto delle immagini poneva alla conversione degli Ebrei e dei maomettani, i quali rifiutavano il cristianesimo per la sua iconofilia, nettamente in contrasto con la loro totale avversione verso qualsiasi rappresentazione materiale.

Icona del Trionfo dell'Ortodossia

Icona del Trionfo dell’Ortodossia fine del XIV sec.

A ciò si aggiungeva la tendenza idolatra del popolo, causata dalla mancanza di una vera comprensione della teologia che giustifica l’icona.

Un’altra ipotesi più probabile, del resto confermata dallo svolgersi dei fatti, fu la volontà di annientare il potere del monachesimo, nel timore che potesse prendere il sopravvento sul potere imperiale.

Comunque nell’843 si arrivò alla definitiva vittoria del culto delle immagini, nel mese di marzo, vi fu un grande sinodo e fu istituita la Festa “il Trionfo dell’ortodossia”, esattamente il giorno 11 marzo del’843, festa   che viene ancora oggi celebrata la prima domenica di quaresima.

di Eleonora Guarducci

Le icone della Vergine

Oltre alle icone che ci sono state tramandate come acheropite, cioè non dipinte da mano d’uomo, ci sono altre icone che sono giunte sino a noi come prototipi dipinti direttamente da San Luca, lo stesso autore dell’omonimo Vangelo.

Queste icone sono raffigurazioni della Vergine Maria, e il fatto che vengano attribuite a San Luca le legittima come ritratti originali.

Sono tre i prototipi attribuiti alla mano dell’Evangelista: due sono immagini della Vergine con il bambino, uno rappresenta la sola Vergine.

vergine di smolensk

Madre di Dio odigitria di Smolensk

La prima tipologia è quella della Vergine odighitria (colei che mostra la via) raffigurata a mezzo busto, frontale, tiene il bambino con il braccio sinistro e con la mano destra lo indica.

Il nome deriva dal greco odegos traducibile in “guida”, nome che sembra derivare dal santuario che si trovava a Costantinopoli, quello degli “odigoi” o “delle guide” perché i monaci che vi risiedevano facevano da guida ai ciechi visitatori in cerca della grazia. Sembra sia stata distrutta dai Turchi nel 1453, di essa sono rimaste diverse copie.

 

 

 

vergine di vladimir

Madre di Dio di Vladimir XII sec. Galleria Tret’Jakov

La seconda tipologia è la madre di Dio della tenerezza o “Eleousa”, dal greco “eleos” “misericordia”, dove la Vergine e il Figlio hanno i volti uniti e rivolti l’uno verso l’altra in una stretta intimità.

Quest’immagine, diffusa in Russia nel XII secolo, trova il suo esempio più noto nella Vergine di Vladimir, icona dipinta quasi sicuramente a Costantinopoli ma poi portata in Russia nel 1130 prima a Kiev e poi definitivamente a Vladimir, divenne la protettrice della Russia e simbolo della lotta contro i Tartari.

In Russia, dove si diffuse moltissimo, prese il nome di “umilenie”= tenerezza.

 

 

L’ultimo tipo è quello della Vergine orante raffigurata in piedi, con le braccia alzate e le palme delle mani rivolte verso il cielo; una delle più famose è quella detta Blachernitissa: si trovava a Costantinopoli nel santuario di Blachernes.

Con questa tipologia (una donna in piedi con le braccia alzate) veniva raffigurata nell’arte paleocristiana l’anima del defunto in attesa di ricevere la vita eterna.

Diverse sono le icone giunte fino a noi come “dipinte da San Luca”, alcune si trovano in Italia come la “salus populi romani” conservata in Santa Maria Maggiore a Roma; sempre a Roma si trova una delle più antiche icone della Vergine chiamata Madonna Advocada (in quanto intercede per i peccatori), del IV-V secolo, di provenienza medio orientale, si trova adesso nella Chiesa del Rosario a Monte Mario; un’altra è la Madonna di San Luca che si trova nell’omonimo santuario sopra Bologna .

madonna in trono

Madonna in Trono , IV sec. – Monastero di Santa Caterina del Sinai

Esistono innumerevoli tipologie della Vergine che variano più o meno da quelle sopra menzionate. Un’altra da ricordare, molto diffusa e presente già nei primi secoli è quella della Madonna seduta in trono, vestita come un’imperatrice e con il Bambino seduto in grembo; si è affermata dopo i concili di Efeso e di Calcedonia nei quali fu riconosciuta quale Theotokos cioè madre di Dio.

Una delle più antiche icone di questo tipo datata VI secolo, si trova nel monastero di Santa Caterina del Sinai dipinta ad encausto; più vicino a noi, sempre risalente al VI secolo, si può visitare la Madonna della Clemenza nella basilica di Santa Maria a Trastevere.

Dopo il periodo “iconoclasta” questa tipologia trova una grande diffusione in forma musiva nel catino dell’abside centrale di numerose chiese.

di Eleonora Guarducci

Il disegno

Una volta che la tavola è stata preparata con l’imprimitura, e debitamente trattata fino ad ottenere una superficie liscia e compatta, è pronta per ricevere la pittura.

L’icona in genere ha il fondo dorato anche se esistono altri tipi di fondi, ma prima di procedere alla doratura, occorre fare il disegno, che ci serve per separare la superficie da dorare da quella su cui dipingere.

Il disegno, o per lo meno il contorno del disegno, viene inciso con un punteruolo o una punta secca, un’operazione che richiede pazienza, precisione e mano ferma.

E’ noto che le composizioni delle icone non seguivano l’arbitraria scelta dell’iconografo, ma erano dettate dalla Chiesa, non per una questione riguardante lo stile, ma il contenuto; l’icona, quale che sia il luogo dove è stata realizzata, deve trasmettere a chi la guarda gli stessi concetti teologici.

Non è un oggetto decorativo, estetico, ma un oggetto sacro e quindi il messaggio che veicola è più importante dell’aspetto artistico.

2014-03-12 19.15.58

I canoni tradizionali sono stati tramandati attraverso gli schizzi preparatori, anche se gli antichi maestri iconografi si potevano avvalere delle icone dei loro predecessori, che costituivano i modelli a cui fare riferimento.

I prototipi da cui si attingevano gli schemi per la composizione sono delle icone così dette miracolose, perché ad ognuna di esse è collegata una “leggenda” che ne stabilisce il valore spirituale.

Le informazioni necessarie per dipingere un’icona sono raccolte in “libri” chiamati in russo “podlinik”, dove i Personaggi e le Feste liturgiche sono descritte con schizzi, dove sono indicate le giuste iscrizioni e i colori da scegliere per il fondo e per gli abiti.

Grafia con aureola all'interno

A noi è giunto il manuale di pittura del Monte Athos di Dionysios di Fournà ma è del 1700, e contiene solo descrizioni sommarie sulle composizioni, alcune ricette, ma nessun disegno; utile per quello che riguarda la pittura ed altri aspetti pratici è il libro dell’arte di Cennino Cennini, pittore nato a Colle Valdelsa nel 1370.

Nel 787 il VII concilio ecumenico, quello conosciuto come Niceno II, dà vita all’arte liturgica definendo l’icona un’immagine teologica prima di essere un’immagine dipinta. Sono infatti i Padri della chiesa che hanno “costituito l’icona” formulandone la teoria e lasciando agli iconografi la tecnica.

di Eleonora Guarducci

Iconostasi

Se qualcuno di noi entra in una chiesa ortodossa, sarà sicuramente colpito da un elemento insolito che la caratterizza e la distingue da una chiesa di rito latino, occidentale: questo elemento è l’iconostasi.
E’ questa una struttura che divide il presbiterio, cioè la zona dove vengono celebrati i misteri divini, dalla navata dove stanno i fedeli.
Iconostasi dal greco eikonostasis = “posto delle immagini”, composto da “eikon” = immagine e “stasis” cioè luogo, posizione; è quindi il luogo dove si posizionano le icone.

iconostasi_smaria

Iconostasi romanica – Santa Maria delle Grazie – Grado

In antico sia le chiese occidentali che quelle orientali avevano questa divisione. Vigeva la consapevolezza della necessità che il fedele dovesse fare un percorso didattico graduale, quindi era necessario nascondere, a coloro che erano ancora catecumeni, i riti che vi venivano celebrati.

Nelle chiese paleocristiane c’era una balaustra con delle colonne che sorreggevano un architrave a formare una specie di portico (pergula) con dei drappi dove venivano appese delle lampade e delle immagini sacre, e questo dette poi il via alle iconostasi vere e proprie con delle griglie sempre più elaborate e più alte che contenevano le icone.

iconostasi_smarco

Iconostasi – San Marco – Venezia

Nelle chiese in occidente, il presbiterio si nascondeva con delle tende, all’architrave venivano appese corone e vasi preziosi, e col tempo vennero aggiunte anche delle statue di marmo assumendo una funzione più decorativa che di effettiva copertura. La separazione, si trasformò nel corso dei secoli in una bassa balaustra in marmo che delimitava il “recinto presbiteriale”.
Alcune chiese moderne, non hanno più neppure il presbiterio tanto che l’altare si trova al centro sotto lo sguardo di tutti.

Secondo il pensiero orientale rimasto inalterato nei secoli, la centralità dei riti sacri non doveva essere immediatamente svelata, perché costituiva per il fedele un percorso educativo composto da varie tappe che lo avvicinavano ai “misteri”; si nascondeva alla vista, secondo la dottrina apofatica in linea con il pensiero dei Padri della chiesa, perché è nelle tenebre che Mosè vede Dio ed anche perché la “grazia” opera nel cuore dell’uomo in maniera invisibile; quindi ancora oggi nel rito ortodosso la celebrazione eucaristica si svolge dietro l’iconostasi.

In occidente al contrario si è preferito introdurre degli elementi attraverso i quali si potesse vedere lo svolgimento dei misteri, secondo il pensiero che per “vedere Dio” fosse necessario vedere l’elevazione dell’ostia alla consacrazione.

Ma torniamo alla nostra iconostasi.

schema iconostasi

L’iconostasi, celando la vista dell’altare e della celebrazione del sacrificio eucaristico, divideva lo spazio sacro da quello profano o, secondo i Padri della Chiesa, il cielo dalla terra.
Questa parete divisoria rappresenta per gli ortodossi una sintesi teologica della loro fede, spiegata attraverso le immagini.
Per accedere al Santuario ci sono tre porte: quella centrale più grande, che ha in genere due battenti, viene chiamata porta regale. Da questa porta può passare solo il sacerdote; un tempo, l’unico laico che vi poteva passare era l’Imperatore di Costantinopoli. Le altre due porte, disposte a destra e a sinistra di quella centrale, sono chiamate diaconali e  vi possono passare il diacono e il resto del clero.
Le iconostasi di tradizione greca sono più basse, mentre quelle delle chiese russe si sono ingrandite nel tempo, aumentando in altezza fino a raggiungere ben cinque ordini di icone.
Queste raffigurano, partendo dall’alto subito sotto la croce: i Patriarchi disposti ai lati della Trinità a rappresentare l’Antico Testamento.
Immediatamente sotto c’è il registro dei Profeti disposti ai due lati dell’icona chiamata “Vergine del Segno”.

DCF 1.0

Iconostasi – Cattedrale dell’Assunzione – Cremlino

Sotto ancora le dodici Feste liturgiche, con al centro l’icona dell’ultima cena.
Nel registro sottostante, intorno all’immagine del Cristo Pantocratore, abbiamo la Deesis, cioè la preghiera d’intercessione per l’umanità, composta da grandi icone con la Vergine e San Giovanni Battista, gli angeli, gli apostoli, i Santi.
Sulla porta reale è rappresentata l’annunciazione e i simboli dei quattro evangelisti, accanto a questa abbiamo a sinistra la Madre di Dio e a destra l’icona di Cristo , poi a fianco delle porte diaconali, dove sono raffigurati gli arcangeli, si trovano l’icona della festa o del Santo locale.

di Eleonora Guarducci

Le icone acheropite

Alcune icone ci sono state tramandate con il nome di icone acheropite cioè non dipinte da mano umana. Queste raffigurano il volto di un uomo, identificato con il Cristo,  con barba e lunghi capelli al centro di un telo rettangolare .

Volto-Santo-Jaroslavl-fine-XIV-secolo

Santo Volto di Jaroslav XIII sec.

 Questa icona è in genere conosciuta come il “mandylion” o il “ keramion”.

Mandylion in aramaico significa “asciugamano”, mentre in arabo “mandil”  sta per “telo”. Secondo la tradizione il mandylion  è il sacro telo che Gesù mandò al Re Abgar V dopo averlo impresso con il suo volto.

Dal VI secolo divenne modello del volto di Cristo per gli iconografi bizantini.

Questo telo (mandylion appunto) fu ritrovato nel 544, e durante l’assedio della città di Edessa nascosto in un muro; fu successivamente ritrovato nel 944 e  portato a Costantinopoli dove fu conservato nella cappella del Palazzo reale, se ne persero poi le tracce nel 1204 sembra trafugato durante la IV crociata. Per alcuni studiosi si sarebbe trattato della “sacra sindone” ripiegata in modo tale da vederne solo il volto.

il santo Keramion scuola di Novgorod XII sec Galleria Tret'Jakov Mosca

Santo Keramion XII sec.

Il keramion invece rappresenta la tegola usata per murare il mandylion e che avrebbe conservato a causa di una lampada accesa l’impronta rovesciata del volto santo. Attualmente i mandylion  che derivano da quello citato sono tre e sono : il santo volto di Laon, il volto santo di Jaroslav e il santo  Keramion di Novgorod. Le icone che raffigurano, oltre al volto del Cristo, due angeli che tengono nelle mani i lembi del telo sono di epoca più tarda.

di Eleonora Guarducci

Preparazione della tavola

Colla di caseina e tela di lino

La realizzazione di una icona è un procedimento abbastanza complesso fatto di varie fasi. Una di queste è la preparazione della colla che serve per tutta la fase preliminare: l’incollaggio della tela chiamata in gergo “ammannitura” e la preparazione dell’impasto con l’alabastro che andrà a formare il levkas e quindi la vera e propria “imprimitura”.

tela di lino

Applicazione della tela

Si possono usare varie colle, come ad esempio la colla di pesce o quella di coniglio, ma noi preferiamo usare la colla di caseina che è ottenuta dal latte scremato poiché la caseina è una proteina del latte.

E’ una colla forte, una delle migliori, perché una volta asciutta è insolubile all’acqua e resiste bene all’umidità; per qualcuno è una colla un po’ rigida, non adatta ai supporti flessibili alla quale si sopperisce aggiungendo all’impasto della glicerina pura.

Prima di applicare la tela è possibile scavare la nostra tavola di 3 o 4 millimetri, in modo da creare una specie di cornice naturale: questo incavo veniva chiamato “kovceg”, detto anche “culla” e sembra indicare una certa intimità fra il personaggio raffigurato e Dio.

Abgar

Abgar V che tiene in mano il Mandylion

Una volta preparata la tavola di legno, viene applicata una tela di stoffa sottile e morbida, senza nodi, una tela di bisso di lino, incollata al legno con la colla di caseina: questo accorgimento da un punto di vista tecnico fa si che lo strato gessoso e la tela formino uno strato unito e resistente capace di sopportare al meglio le tensioni inevitabili del legno; esso ha inoltre anche un valore simbolico e un preciso riferimento teologico: il ricordo dell’avvenimento miracoloso da cui deriva la prima icona, “il volto non dipinto da mano d’uomo”, cioè il volto del Cristo acheropita, che Gesù consegnò impresso sul lino ai messi del Re Abgar affinché fosse guarito dalla lebbra. In analogia a questo avvenimento abbiamo nella nostra tradizione occidentale il santo volto del Cristo impresso nel velo della “Veronica”.

 

L’imprimitura

Una volta asciutta la nostra tavola, si procederà all’imprimitura vera e propria con quattro mani di gesso e colla. Nel nostro caso il gesso è composto da polvere di alabastro ben setacciata incorporata alla colla di caseina.
Questo fondo viene definito “levkas” da leukos che in greco significa bianco, proprio perché questa tecnica è stata elaborata a Bisanzio; da un punto di vista tecnico costituisce un buon fondo per la stesura dei colori perché omogeneo, piano e assorbente.
Per “imprimitura” s’intende la preparazione di una superficie da dipingere mediante sostanze adatte a facilitare la stesura del colore.

2014-03-12 19.49.05

Imprimitura

La parola imprimitura ci dà l’idea dell’imprimere, del premere, simbolicamente è anche un lavorare su noi stessi, sulla nostra interiorità per imprimervi quella purezza capace di riflettere la luce divina.

L’alabastro, che comunque appartiene alla famiglia dei gessi, è un minerale antichissimo composto di solfato di calcio, al microscopio si presenta in forma cristallina, la sua polvere è lucente, madreperlacea, vitrea, ha la proprietà di riflettere la luce.
Così anche la nostra tavola una volta asciugata presenterà una superficie liscia e brillante dovuta proprio alla polvere di alabastro che se pur polverizzato mantiene la sua struttura cristallina.

Pavel_Florensky

Pavel Florenskij

Per Pavel Florenskij, come si può leggere nel suo libro “Le porte regali”, l’opera dell’iconografo è quella di mutare la tavola in parete, perché la parete di pietra offre una superficie salda ed immobile, simbolo di incrollabilità, così che la tavola dell’icona possa condensare la qualità perfetta della parete, la sua essenza.
Nelle icone antiche, quelle che venivano dipinte a scopo liturgico nei monasteri, da monaci che si sottoponevano ad un rigoroso regime ascetico, nel levkas veniva incorporata qualche particella polverizzata delle ossa di un santo, così da far diventare l’icona ancor più “luogo della presenza”.

di Eleonora Guarducci

La tavola di legno

L’icona non è un quadro, ma è comunque un’opera pittorica per la quale si utilizza una tavola di legno. E’ opportuno che il legno non sia né troppo duro, né troppo morbido e che appartenga ad alberi ritenuti sacri come il tiglio, l’abete, il pioppo e il cipresso.

In tutte le tradizioni l’albero ha un ricco simbolismo, in virtù del suo aspetto eretto e del suo spingersi verso l’alto; funge da collegamento tra la terra e il cielo, simboleggiando un movimento ascensionale evolutivo.

Il simbolismo dell’albero si ritrova un po’ in tutte le tradizioni compresa quella celtica dove è simbolo di scienza, forza e vita; è sotto un albero che il Budda riceve l’illuminazione, si parla di due alberi nella Bibbia; nella tradizione cabalistica ebrea c’è l’albero sephirotico simbolo dell’emanazione divina ma anche dell’uomo; si ritrova anche nella mitologia iraniana con un simbolismo magico-religioso, mentre in Cina due alberi sono intrecciati tra loro a rappresentare lo yin e lo yang, e nel Corano si legge di un albero-loto simbolo del Paradiso.

Il legno indica proprio la materia: simbolo in India della sostanza universale, per i Cinesi è il quinto elemento, rappresenta la materia prima e quindi anche la possibilità di poter intervenire sulla nostra interiorità, come anche si rileva dalla parola greca hyle che significa sia legno che materia prima.

Quello che però in questo caso ci interessa è la tradizione ebraico-cristiana dove l’albero della vita dell’Eden è messo direttamente in relazione con il Cristo ed anche con la croce simbolo del suo sacrificio; albero e croce si identificano così all’asse del mondo, che in virtù del Cristo innalzato su di essa, rende possibile per tutta l’umanità la sua ascensione al cielo.

Pacino_di_buonaguida,_albero_della_vita,_00

Cristo Albero della Vita, tempera e oro su tavola, Pacino di Buonaguida (1300 ca)  – Firenze Galleria dell’Accademia

Per la Chiesa ortodossa l’icona è il “luogo” in cui “il mistero si fa presente”, per cui la fedeltà alla Tradizione è molto importante, e comporta anche una cura particolare per tutti gli aspetti che la riguardano, a cominciare proprio dalla tavola di legno.

Nella scelta della tavola si deve porre attenzione ad alcuni fattori: il legno deve essere compatto, privo di nodi, ben stagionato e senza resina. Abbiamo già detto quali sono gli alberi da preferire, ma c’è da dire che in passato ogni scuola o monastero si serviva degli alberi che erano più facilmente reperibili nella zona in cui si trovavano.

La tavola poi deve essere tagliata in piena massa, più vicino al centro del tronco per garantire solidità e poi lasciata stagionare.

Per la pittura si utilizza la parte della tavola rivolta verso il centro dell’albero, in modo da evitare che la tavola con il tempo diventi concava deformando l’immagine, ma casomai convessa assumendo quella forma a “coppo” tipica di certe antiche icone.

tavole 1Le stesse misure della tavola non devono essere scelte a caso, ma possibilmente devono seguire dei canoni tradizionali e simbolici ben precisi. Ecco che la tavola rettangolare adatta a raffigurare un’immagine a mezzo busto è costruita tenendo in considerazione le proporzioni numerico-simboliche del triangolo sacro o triangolo d’oro (cioè se divisa idealmente da una linea obliqua forma due triangoli rettangoli dalle proporzioni 3 e 4 per i due lati e 5 per l’ipotenusa, la cosiddetta terna pitagorica). Questo triangolo era conosciuto fin dall’antichità e venerato come elemento costitutivo dell’Universo, gli Egiziani lo mettevano in rapporto con Osiride, Iside e Horo, i Celti lo usavano per le “griglie base” di costruzione degli elementi decorativi.

di Eleonora Guarducci

Che cos’é l’ Icona?

vergine tenerezza

Madre di Dio di Rublev

Con questo termine, ormai di uso comune, non intendiamo parlare di quegli elementi grafici che popolano i nostri computer e che ben conosciamo, ma facciamo riferimento a delle immagini sacre per lo più dipinte su tavola di legno, che facilmente richiamano alla mente il mondo greco bizantino e la cultura russa ortodossa.

 Questa parola è in realtà una traslitterazione del termine greco εικονα che si traduce con “immagine”, mentre l’infinito perfetto εικεναι è traducibile in “essere simile”, “apparire”.

Il vocabolo “icona” è più appropriato di quello latino “imago” che significa ritratto, figura, immagine, copia, ma anche ombra.

Questi due termini sono un po’ lo specchio delle divergenze che hanno diviso il mondo greco e quello latino. Divergenze che si manifestarono nel rifiuto o nella diffidenza occidentale di fronte al ruolo che l’icona aveva nella cultura greco-ortodossa.
Sintetizzando si può dire che in origine “imago” indicava, nel mondo romano latino, un ritratto, che assume la funzione di sostituto del personaggio, una sorta di doppio o di sosia, tanto che la presenza dell’immagine dell’Imperatore aveva funzione giuridica, e in un tribunale conferiva autorità sovrana al giudice.

Il termine “eikon”, icona, indica invece nel mondo greco un’immagine che è somigliante e nello stesso tempo differente rispetto al modello, che funge da collegamento con il modello che rappresenta, e ne permette la conoscenza, ma non è un sostituto della sua presenza o delle sue funzioni.

I Padri del VII Concilio distinsero in maniera precisa tra icona e ritratto, perché se il ritratto rappresenta un essere umano ordinario, l’icona rappresenta un uomo unito a Dio.
Le icone sono quindi delle tavole di legno di varia grandezza preparate in modo tale da offrire una buona superficie su cui dipingere.
Vi possono essere rappresentati vari soggetti sacri di cui il primo è il volto del Cristo, poi la Vergine Maria, gli angeli, i santi, ma anche avvenimenti narrati nei Vangeli, e anche altro.
E’ un’arte sacra che ha le sue origini nel Cristianesimo perché il fondamento dell’icona è proprio la nascita di Dio, di Cristo, nell’umanità.

Questo tipo di immagine che nasce nel mondo greco bizantino, talvolta anche in forma di pittura murale e musiva (cioè realizzata a mosaico) ebbe un suo sviluppo anche in occidente, dove però non fu mai compresa veramente nel suo aspetto teologico.

L’icona è essenzialmente un simbolo, uno strumento, un ponte che collega il terrestre con il celeste, viene definita una “finestra aperta sul divino”. Una finestra attraverso la quale noi osserviamo il mondo spirituale e Dio guarda noi attraverso le immagini dipinte. Per i Greci l’icona è il “luogo” dove Dio si rende “presente”.

angelo

Arcangelo Gabriele Monastero di Santa Caterina  del Sinai

Nella tradizione della chiesa bizantina, e poi anche della chiesa russa l’icona assume un significato particolare, e il simbolismo è usato non solo per rappresentare la parte pittorica, ma è utilizzato anche nella preparazione della tavola, nell’uso dei materiali adoperati.

Può essere difficile comprendere un’icona, specialmente per noi occidentali, perché l’icona non deve essere considerata solo un’opera artistica, non la si può paragonare ad un quadro e non svolge certo la stessa funzione.
Mentre un quadro ci parla un linguaggio terrestre, parla dell’uomo, delle sue idee, delle sue emozioni, l’icona ci trasporta in un altro mondo, in un piano trascendente dove tutto è immobile, sacro, immerso nella Luce del Regno di Dio.
Nella cultura occidentale, specialmente con il Rinascimento si osserva una nuova concezione dello spazio e del tempo; non a caso l’introduzione della prospettiva anima le scene, contribuisce a localizzare personaggi ed avvenimenti, portando una visione più “realistica” nella pittura.

L’uomo diviene più cosciente di sé ma perde sempre di più il contatto con il Creatore, quel contatto che proprio la vera pittura sacra, l’iconografia cercava di instaurare.

di Eleonora Guarducci

De vulgari eloquentia: Lingua Sacra e Tradizione Arcaica

“Dico a socera perché nora intenda” con questa frase Alessandro Manzoni inizia una sua lettera a Ruggero Bonghi, l’allora ministro dell’istruzione pubblica, dove il noto scrittore viene a parlare con linguaggio prudente e sibillino del libro De vulgari eloquentia di Dante Alighieri, libro “citato da molti e letto quasi da nessuno”.

Un trattato in prosa latina di argomsei ritratti di poeti toscani_vasariento linguistico-retorico, dedicato alla definizione della lingua volgare da usare nelle opere letterarie. Così lo troviamo definito oggi nelle varie antologie letterarie.

Ma continuiamo con la lettera del Manzoni: “L’opinione che Dante, nel libro De Vulgari Eloquio, abbia inteso di definire, e abbia definito quale sia la lingua italiana, è talmente radicata, che non si suppone generalmente che possa neppure essere messa in dubbio…ma in esso non si tratta di lingua italiana né punto né poco”.

Ecco che in questa opera quindi non si  parla di una lingua ma di una determinata forma di linguaggio, una forma con una struttura precomposta, secondo debiti numeri regolata come scrisse il Boccaccio che ne fanno un mezzo adatto alla Rivelazione, alla trasmissione della Rivelazione e della Tradizione e che diventa così la pantera allegorica che “fa sentire il suo profumo ovunque e non si manifesta in nessun luogo” se non nelle poesie di “Cino Pistoiese e l’amico suo (così Dante si presenta nell’opera) dell’amore suoi servitori e ministri”.

a cura di Franco Naldoni e Debora Viciani

Giovedì 26 Febbraio ore 21,30